domenica 27 maggio 2012

I sidecar, le Ural e il TT


La fissa delle motociclette ci rende simili a dei cerini, basta strofinarci un po’ per accendere l’entusiasmo. E il bello del nostro mondo è che appare più ampio di quanto immaginiamo. A volte affermiamo le nostre scelte motociclistiche con i paraocchi: chi solo pista, chi solo mulattiere, chi solo classiche, chi solo Vespa e così via. Io sono per le contaminazioni e le divagazioni: se vedo un decespugliatore in campagna resto incuriosito dal suono, dal funzionamento, dalla tecnica o dalla manutenzione.
Negli ultimi giorni, nella mia classifica dei trip, c’è una new entry: la dimostrazione che in motocicletta si può viaggiare anche in 3 (con qualche accorgimento, naturalmente…). Già da mesi sbavo per poter accasare nel mio (inesistente) box un “cancello” con il marchio Royal Enfield sul serbatoio. Adesso si aggiunge un altro “trattorone” alla lista dei desideri, ma stavolta con 3 ruote: un favoloso sidecar Ural.
Wikipedia definisce sidecar “un carrozzino laterale applicabile ad un motoveicolo per comporre una motocarrozzetta”. E l’emblema del sidecar non può che essere il glorioso marchio Ural, nato nell’ex Unione Sovietica negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Da allora a oggi sforna modelli progettati su base BMW R71 Sidecar: da 60 anni, stesso motore (il bicilindrico boxer), stesso telaio ed evoluzione quasi pari a zero. Sono gli unici a poter vantare una storia del genere nella costruzione di questo tipo di mezzi. Duri e puri. Se questa non è tradizione!
Anche in Italia esiste un importatore del marchio Ural
e i modelli in vendita sono diversi. Il più affascinante secondo me è il più spartano, l’Ural T: boxerone 745cc da 40 CV Euro 2 a carburatori, trazione 2wd, cambio 4 marce con retromarcia, avviamento elettrico e a pedale, trasmissione a cardano, freni a disco e cerchi da 19’’ a raggi. Immaginatelo tutto nero, verde militare o coloniale: elettrizzante. Prezzo: 9.900 euro. Tra gli accessori, tanica di benzina supplementare, badile, parabrezza e portapacchi posteriore con tanto di ruota di scorta.

Un'immagine dell'Ural T. Fonte: uralroma.it.

Si dice che le Ural siano pesanti, obsolete, poco affidabili e poco guidabili, ma credo siano solo i classici cliché. Qualunque moto con un anima ha bisogno di attenzioni e di un minimo di manico. Sul sito di Ural Roma ho trovato una storia affascinante sulle Ural: pare arrivino dal concessionario quasi completamente smontate, dentro anacronistiche casse di legno. In officina, prima di consegnarle al cliente, è necessario serrare ogni vite e bullone, testate comprese, registrare le valvole e i cuscinetti delle ruote, eseguire la regolazione e il bilanciamento dei freni, la sostituzione degli oli di produzione russa con prodotti di qualità superiore, l’attivazione delle connessioni dell’intero impianto elettrico e, infine, il montaggio dei carburatori, l’avviamento del propulsore, la carburazione e la sincronizzazione dei carburatori. Pura passione!

Un sidecar Ural ancora imballato nella cassa. Fonte: uralroma.it.

Nel nostro paese esiste l’Ural Sidecar Club (cui esprimo tutta la mia ammirazione), dove i possessori di sidecar Ural si incontrano, scambiano opinioni e consigli e organizzano esaltanti giri per l’Europa su tre ruote.
Sul sidecar si viaggia a una velocità tranquille, ma si possono fare anche viaggi impegnativi, ammirando il panorama e chiacchierando col passeggero al proprio fianco. Sensazioni uniche, pare. Di contro, un sidecar non piega e al semaforo non è necessario sostenerlo poggiando il piede a terra. Tecnicamente invece, a causa delle maggiori sollecitazioni, è un po’ più usurate sui raggi delle ruote, sul canotto di sterzo e, ovviamente, sulla frizione. 

Un sidecar di Centoallora su base Triumph. Fonte: centoallora.net.

L’aspetto interessante è che anche chi già possiede una motocicletta e desidera trasformarla in sidecar può rivolgersi a produttori in grado di concretizzare un progetto solo apparentemente complesso. Basta disporre di ruote a raggi e telaio a doppia culla.
In Italia già da qualche anno si distingue Centoallora
, sulla cui homepage è espressa l’essenza del sidecar: “E' difficile spiegarle: è un po' come andare per mare a vela anziché su un veloce motoscafo”. In listino compaiono moto sidecar come la Triumph Bonneville, la Moto Guzzi V7 Classic, la Kawasaki VN 900 e la classica Vespa.
Bellissimo, nella sezione “I nostri carrozzini”, il modello "Wehrmacht": un classico intramontabile.

Sidecar su base Motoguzzi California Stone realizzato da sidecaritalia.com.

Un altro costruttore da segnalare è Sidecaritalia, che produce e installa carrozzini su qualsiasi tipo di motocicletta, dalla Vespa all’Electra Glide, dal Guzzi Galletto alla Honda Goldwing. Sul sito c’è una gallery di modelli e personalizzazioni davvero infinita.
La community dei sidecaristi italiani è parecchio attiva, basta dare un’occhiata a Sidecarforum
: pieno zeppo di informazioni e consigli utili, con foto altrettanto interessanti di restauri e spippolamenti di ogni genere

Un sidecar da pista al TT. Fonte: bikeracing.com.

Il sidecar mi fa pensare anche al Tourist Trophy, dove impavidi piloti di ogni età, rischiando la vita sdraiati a pochi millimetri dall’asfalto, riescono a far volare i propri mezzi a tre ruote lungo le insidiose strade di Man.
Accontentiamoci di una bella strada statale italiana: 80 all’ora, zavorrina comodamente seduta a fianco e un sidecar inarrestabile e luccicante, pronto a portarci in capo al mondo.

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domenica 20 maggio 2012

Moto vs scooter, faida banale


Dai, sappiamo tutti bene quanto la rivalità tra motociclisti e scooteristi sia ‘na stronzata. Se ne parla sulle riviste cartacee per far vendere qualche copia in più tra i ragazzini o sui forum degli stessi per ricordare in maniera latente agli appassionati che non esisterebbero moto come la Aprilia RSV4 senza i fondi della Piaggio o come la CBR1000RR senza i numeri dell'HondaSH. È una rivalità patetica. Basta con 'sta storia della “Iacuzzi a due ruote”.
Chi ha uno scooter è fortunato se in garage possiede anche una motocicletta, ma qualora così non fosse non è sempre per scelta (almeno voglio sperare): o non c’è abbastanza grana per pagare due bolli e due polizze RC oppure è solo perché non ha senso farsi ogni giorno la A4 Capriate - Milano o la A1 Valmontone - Roma con zero protezione aerodinamica e zero spazio anche solo per una 24 ore.
Lo scooter è utile. Punto. La moto è libertà. Altro punto.
Chi dice che il mototurismo si può godere anche in scooter esagera e tira acqua al suo mulino. Per quanto guidare un Yamaha T-Max sia un grandissimo spasso, non sarà mai come percorrere una statale su un bicilindrico con cambio manuale. Di contro, chi si ostina a girare quotidianamente sul raccordo o nel centro caotico di una grande città su una MV Brutale, è un fanatico malato di edonismo. E non venitemi a raccontare che è una questione di stile.
Insomma, se non potessi permettermi una moto con tutti i crismi e dovessi accontentarmi di un più pratico ed economico scooter o se potessi permettermi uno scooter di supporto alla moto, non avrei dubbi, la prima scelta sarebbe la Vespa PX 150. Non ce n’è per nessuno. Certo sul pavé e in tangenziale ti fai due balle tante, ma quel cambio sul manubrio è un piacere impareggiabile (tranne quando cede il cavo della frizione…).
Però ci sono altre soluzioni intriganti e intelligenti per la mobilità moderna, distanti anni luce dalla nostra mentalità di duri e puri delle motociclette tradizionali con cambio, frizione e vento sulla faccia. Proviamo a tirarle fuori.

Capitolo scooterini. Il più figo è l’Honda Zoomer. Tecnologicamente avanti, essenziale, colorato, compatto e controcorrente. E consuma poco. Con quelle ruotone sembra un derivato di quei goffi mezzi dell’Alitalia che all’aeroporto trasportano i bagagli da e verso gli aerei…


Poi c’è una sorta di ibrido (definirlo scooter sarebbe troppo) con tanto di tettuccio: o lo ami o lo odi. Il discusso BMW C1, ormai uscito di produzione. I manager delle city nostrane fecero a gara per averlo e andarci a lavoro in giacca e cravatta e senza nemmeno il casco. Un bel cassone sul posteriore dove insaccare qualunque cosa, ruote pericolosamente sottodimensionate, tagliandi BMW non proprio convenienti, accostamenti cromatici discutibili (ricordo un’orribile versione grigia con sedile in cuoio marrone, imbarazzante) e zero spazio per il passeggero. A chi non è capitato, con imbarazzo, di vederne uno trasportare il povero passeggero “abbrancicato” esternamente all’abitacolo? 


Adesso attenzione perché inizierò a spingermi oltre e so che il dibattito potrebbe accendersi e scoppiare come un petardo a capodanno. In questa lista di coraggiose alternative alla moto tradizionale non resisto ad inserire anche il Piaggio MP3, vendutissimo in Europa, soprattutto in Francia, meno diffuso qui da noi. Mi fa impazzire sia la versione Yourban, agile e stretta per la città, sia la Touring, meglio se con quell’esagerato parabezza “Confort” iperprotettivo. Su tutto, il desiderio di piegare su tre ruote, paragonabile solo a quello di impennare con un Ape 50!


Per finire, la provocazione si fa eclatante. Che ne direste di dare in permuta la moto e gettarvi nella giungla urbana a bordo (dato che dire “in sella” sarebbe inadatto) della Renault Twizy? Sembra una Smart tagliata in due. Non è un’auto, non è una motocarrozzetta, non è uno scooter. La casa costruttrice la definisce Urban Crosser (quelli del marketing non stanno bene) e secondo me è un’idea coraggiosa, uno sforzo concreto e pratico che incontra le recenti esigenze della sempre più esasperante mobilità urbana. È elettrica, ha due posti in linea coperti, arriva a 80 km/h e, per gli irriducibili dell’aria sulla faccia, non ha i finestrini. Oltre al fatto che abbia due ruote di troppo, il vero difetto è che non produrranno mai nessuno scarico Termignoni o Akrapovic per un mezzo del genere… Sigh!


Se il pensiero di tirare fuori dalla cantina il vostro vecchio Honda CN 250 impolverato o l’MBK Booster di quando avevate 16 anni vi ha sfiorato, ho colpito nel segno. Se invece l’unico pensiero che avete in mente è quello di andare a lavare la catena della moto con il petrolio bianco prima che faccia buio, allora ho proprio azzeccato il post questa settimana…

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domenica 13 maggio 2012

Storia di una zavorrina


Sono le 19 passate di una domenica dal cielo in bianco e nero. Mapi sorseggia una tisana alla malva, stravaccata sul comodo divano di casa. È preoccupata. Il suo Max_Panigale non è ancora rientrato dal giretto con gli amici del motoclub Ducati e non si è nemmeno fatto vivo a ora di pranzo, come da consuetudine, quando lei decide di non andare.
Mapi si fida ciecamente del suo centauro, sa quanto è esperto, prudente ed equilibrato alla guida e nella gestione del potente motore desmodromico. Ad impensierirla sono due o tre turpi membri del club: Pantera, Celhoduro e Giova_82, biker fuori di testa che non temono il rischio e vanno irresponsabilmente su e giù per i passi come fossero a Misano. Una volta il Pantera si schiantò sull’Aurelia su un R1, si rialzò indenne, chiamò il carrattrezzi, salì a bordo della moto di un compare con la tuta tutta raschiata e proseguì il giro tra le colline come se nulla fosse. La settimana successiva aveva già rimpiazzato la sua Yamaha fracassata con un GSX nuovo di zecca.
Racconti come questo, ascoltati sempre a mandibola serrata, durante le riunioni, i raduni o le cene del club, provocano angoscia in Mapi. Teme che Max prima o poi possa perdere l’aplomb alla guida e spingere forte sul gas all’inseguimento di quei tre forsennati. Questa domenica non ha avuto la forza di indossare casco modulare, guanti e paraschiena - oggetti di cui fino a pochi anni prima non era neanche a conoscenza - per accompagnare il suo uomo lungo le adrenaliniche cavalcate tra i tornanti. Ma sono tanti i chilometri percorsi fino ad oggi con gran dignità nei panni di zavorrina. Ormai è una veterana: dai gesti di Max capisce quando e come saltare in sella, se in fretta o delicatamente; quando è il momento di tirare fuori il telepass o il bancomat; quando accovacciarsi dietro la schiena del pilota, per agevolare l’aerodinamica; quando chiudere gli occhi, per non patire l’effetto montagne russe durante le fulminee scalate verso i passi.
Nei noiosi trasferimenti autostradali chiacchiera a lungo in interfono: per ringraziarla della pazienza, lui le tiene la mano sul ginocchio e le promette un’altra cena al lume di candela, un weekend al mare o un regalo speciale. Così lei lo abbraccia fino a sentire lo stridere delle giacche di pelle. Se invece viaggia nel silenzio dentro il casco, pensa a quanto sarebbe romantico e confortevole trascorrere un paio di giorni a Firenze ogni tanto, magari arrivando in treno e portando con se tutta la sua roba, senza rinunce, dentro un supercapiente trolley a quattro ruote piuttosto che dentro una borsa laterale Givi o ancora peggio dentro un microscopico zainetto appiccicato alla schiena. Quanti sospiri, sotto la visiera, sognando un finesettimana di primavera lontani dall’asfalto, immersi nella quiete rassicurante di un resort. Una sauna, un idromassaggio, un trattamento benessere. Sdraiati sui lettini, avvolti da morbidi asciugamani profumati, scambiandosi baci e tenendosi per mano.
“Se Max non avesse la passione per la moto, il pensiero di percorrere 400 chilometri al giorno non mi avrebbe mai lontanamente sfiorato”, si sfoga Mapi con le amiche. Ma in cuor suo sa bene che, pur di stare accanto all’uomo che ama, farebbe questo ed altro. Vedere gli occhi di lui stracolmi di vitalità quando si sfila il casco, sentire il suo entusiasmo durante i discorsi con gli altri biker, percepire la sua spensieratezza tutte le volte che accende il motore del Ducatone. Tutto questo rende serena anche lei.
Ma oggi non sono insieme. Mapi non aveva voglia di svegliarsi ancora una volta alle 8.30 di domenica mattina. Voleva godersi un’eccitante colazione con le amiche al centro, parlare del più e del meno senza orari e senza freni, godere del primo tiepido sole primaverile, sfogare le sue ansie, scambiare consigli di salute, di bellezza, di vita. E ridere senza limiti.
L’agitazione per il silenzio e il ritardo di Max adesso crescono, la luce del pomeriggio si fa fioca, non c’è più tisana nella tazza. Trilla il telefono, ma è solo il tweet di qualche rompiscatole. Mapi butta uno sguardo in cortile dalla finestra, drizza le antenne per captare il rombo sordo di un motore, digita il numero di Max: “il cliente da lei chiamato non è disponibile”.
E se gli fosse successo qualcosa? “Proprio oggi che non sono con lui. Se avesse bisogno di me?”. Inizia a cercare sul notebook di Max i numeri della cricca del motoclub. La batteria è scarica, non ricorda la password, passano i minuti. I pensieri si rincorrono tra un’ipotesi e l’altra e, proprio mentre l’iperattività cerebrale tipicamente femminile è al suo massimo, un rumore di serratura che si apre frantuma ogni sospetto. Quel mellifluo di Max_Panigale entra in soggiorno sorridente e, come un bambino con le mani sporche di marmellata, si tuffa sul divano per abbracciare Mapi. Senza neanche togliere gli stivali, ancora bardato nella corazza da centauro. Lei, con il volto atrofizzato, sfoggia una tipica smorfia alla Mr. Bean e vorrebbe buttarlo giù dalla finestra con tutta la moto. Lui si affretta a sciogliere il gelo: “Amore scusa, a pranzo non ho fatto in tempo a chiamarti perché quel nerchione del Pantera ci ha fatto mangiare un panino al volo… Ho anche dimenticato di caricare il cell, mi si è spento stamattina dopo due foto: per caso avevi provato a chiamarmi?”.

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domenica 6 maggio 2012

Due romanzi, due viaggi in moto


Scrivere un libro è il sogno di tanti. Scrivere un libro di viaggi in moto riesce a qualcuno. Scrivere un libro di viaggi in moto che emozioni davvero riesce a pochi.
Girare tra bancarelle e librerie alla ricerca di racconti di viaggio (possibilmente conlamoto…) che stimolino la fantasia è uno dei miei svaghi preferiti. Sebbene gli scriventi o scribani come me dovrebbero lodare la rete e i siti di free bloggin, promuovendoli come i mezzi migliori dove condividere gratuitamente riflessioni ed esperienze, senza dover sottostare alle logiche commerciali dell’editoria tradizionale, è innegabile che sfogliare e tenere tra le mani un oggetto tangibile come un libro, che profuma di stampa e dove le parole restano impresse per decenni, ha un fascino insuperabile. E pubblicarne uno rappresenta un traguardo straordinario per ogni appassionato di scrittura che abbia una storia da raccontare. 
Nella sezione Viaggi delle librerie è facile trovare libri dedicati ai viaggi in moto, ci sono i classici del compianto Giorgio Bettinelli e i best seller di Ted Simon, ci sono i nuovi autori come Giorgio Serafino e ogni tanto salta fuori anche qualche nuovo esploratore su due ruote che prova ad inserirsi in questa sottile nicchia editoriale.
Nella sezione Guide Turistiche invece si trovano ben altro tipo di libracci scritti senz’anima da chissà chi: le guide che propongono una serie di freddi e anonimi itinerari in giro per l’Italia, secondo il volere dell’editore di turno. Ne sono allergico perché, piuttosto che tenere un mattone di guida sulla borsa serbatoio, preferisco accendere la moto e andare dove mi porta l’istinto, imboccando le strade che sul momento mi affascinano di più. È sufficiente una buona cartina stradale. E via.
Tornado alle librerie, i testi più insoliti e sorprendenti da scoprire sono quei romanzi che affrontano temi più ampi e generici rispetto al motociclismo puro, ma che ricorrono ad esso per esprimere il senso di libertà di cui la moto è emblema. Giorni fa ho beccato due libri freschi di stampa molto interessanti che appartengono proprio a quest’ultima categoria. E li consiglio vivamente.


Il primo è “Stranieri alla terra” di Filippo Tuena (Nutrimenti, 352 pagine, 18.50 euro). Mi incuriosisce la bella immagine di copertina in bianco e nero che immortala la ruota di una moto che sfreccia sull’asfalto: la forcella mi sembra conosciuta, sembra una di quelle prodotte ad Hinckley da Triumph. Come m’insegnò la prof. Patti durante le lezioni di italiano ai tempi delle superiori, do subito un’occhiata alla sintesi, alla bio dell’autore e all’indice, scoprendo che la seconda parte del romanzo racconta un viaggio autobiografico in moto, alla ricerca delle proprie radici, in sella a una splendida Triumph Speed Triple T301 monofaro, immortalata pure tra le pagine del libro. Sul sito della casa editrice è descritto come “un viaggio della memoria in motocicletta sulle strade d'Italia, verso Roma, per tornare alla casa di famiglia, ai corridoi e le tappezzerie, le foto d'infanzia, i genitori, al catalogo amaro degli scomparsi e di quello che resta. Con un'eccentrica tappa conclusiva”. Aggiungo anche un breve estratto dal libro: “Un motociclista ha potere sul tempo e sullo spazio e può interrompere in ogni momento la sua corsa anche se ha il sospetto che sia il tempo ad avere su di lui potere assoluto tanto da poterlo condurre attraverso deviazioni imprevedibili di fronte a panorami inattesi”.


L’altra sorpresa è il quarto libro più venduto in Italia e il secondo nelle librerie Feltrinelli: non lo sto certo scoprendo io, ma promuovere la cultura non è mai superfluo!
Di nuovo, ad attirare la mia attenzione è l’immagine di copertina: una Harley Davidson stilizzata, superaccessoriata e stracarica di bagagli, su uno sfondo verde fluo. “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas (Marcos y Marcos
, 320 pagine, 17 euro) è la vera storia di Franco, padre disposto a tutto per combattere la malattia del figlio, e Andrea, un ragazzo autistico dall’abbraccio dirompente. Un'avventura coraggiosa e imprevedibile raccontata con umorismo: in fuga da terapie di ogni genere, padre e figlio partono insieme per un viaggio diverso e senza meta. Tre mesi in moto tra strade, deserti e città, 38mila chilometri attraverso l'America, verso il Messico e fino alle foreste del Guatemala e dell’Amazzonia. Durante il viaggio i ruoli tra i due si ribaltano e non si sa più chi sia “diverso”. Il genitore impara dal figlio ad abbandonarsi alla vita e finisce per desiderare di rimanere in viaggio con lui per sempre. Credetemi, vale la pena salire su quella Harley con Franco e Andrea.

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