Non ho mai nascosto la mia grande passione per la Dakar, una corsa incredibile, ricca di tradizione, costellata di eventi spesso tragici e di colpi di scena, un evento motoristico al top per piloti, mezzi e investimenti in campo. La Dakar a me basterebbe ammirarla anche solo da bordo pista, dalla partenza o all'arrivo, ai check point o curiosando tra i garage improvvisati tra la polvere del bivacco. Un sogno che, come tanti, spero prima o poi di realizzare. Ammiro tantissimo la gente ordinaria che investe i propri risparmi per partecipare alla corsa sudamericana (soprattutto in moto, naturalmente): piloti normali che non sono campioni, nè top rider di squadre ufficiali, gente che durante il resto dell'anno lavora come meccanico, impiegato o professionista e che a gennaio si ricopre di sabbia e fango in sella a un endurona, tentando di azzeccare la rotta giusta sul roadbook e orientandosi con bussola e posizione del sole. E a cui basta solo arrivare al traguardo finale, strafottendosene del general ranking e dei main sponsor.
Il fascino della Dakar sta anche nella sua insolita dimensione temporale. In Europa le notizie e gli aggiornamenti sulla gara arrivano sugli smartphone in giorni e orari ben lontani dal canonico weekend e dai TG della sera. Mentre sei a lavoro senti un avviso dal telefonino e dall'app della gara speri di ottenere buone notizie sui tuoi piloti preferiti, sui distacchi e sugli italiani in corsa.
Il plurivincitore della Dakar, Marc Coma doma l'invincibile KTM. Fonte: Marc Coma Official Facebook |
L'edizione appena conclusa ha continuato a confermare lo strapotere della KTM, grazie all'incredibile esperienza di Marc Coma, uno che secondo me è più capace di saper andar piano al momento giusto piuttosto che spingere sempre a ogni costo. Probabilmente è su questo che Barreda Bort ha perso la sua chance di vittoria. La squadra austriaca non sembra avere avversari: Yamaha si è affievolita, Honda è vicinissima ma non ancora affidabile, le altre case non investono, forse per timore di accostare il proprio brand a una gara famigerata per le vittime mietute ahimè annualmente.
Il timore è che, a causa degli investimenti massicci dei principali team e sponsor, anche la Dakar si stia - mi sia concesso il termine - formulaunizzando. Rischia di diventare prevedibile come il circus di Ecclestone o come la MotoGP. Lo confermano pure i risultati delle categorie auto, con il dominio di Mini, e camion, con gli inarrestabili russi della Kamaz, veloci e potenti come un Mig.
Alcuni aspetti della Dakar mi lasciano perplesso. Ad esempio il fatto che vecchi leoni delle due ruote come Peterhansel, Roma o Despres a un certo punto passino alle 4 ruote. Sarebbe più sensato che si dedicassero al lavoro di team manager o di talent scout per trasmettere la propria esperienza a giovani centauri. Mi danno l'idea di ex ormai bolliti che non abbiano più il fegato di rischiare in sella a un bicilindrico su ruote tassellate.
Oppure la scelta un po' forzata di puntare con insistenza i riflettori su Laia Sanz, la sorprendente pilota spagnola entrata in top 10, surclassando centauri uomini dal palmares di tutto rispetto. Brava è brava. Aiutata certo dalla Honda, che le ha fornito un mezzo e un'assistenza di prim'ordine. Ma la mia idea è che il suo successo sia una manovra di marketing dettata dall'esigenza dell'organizzazione di allettare nuovi target e nuovi sponsor.
Alessandro Botturi con la sua Yamaha. Fonte: Alessandro Botturi Offical Facebook. |
Scandaloso in Italia è che i principali canali di informazione TV non dedichino adeguato spazio alla Dakar, mentre non manchino mai di rompere con il calcio, moviole, processi e arbitri cornuti. Eppure anche quest'anno in gara correvano piloti italiani. Gran peccato per l'uscita di Botturi, che avrebbe potuto centrare il target della top 10; bravissimo Ceci, 14° in classifica generale; e tanto di cappello a Brioschi, Toia e Casuccio, ai quali offrirei volentieri una birra in cambio di qualche aneddoto dal sudamerica...
La Dakar, ne avevo scritto anche in passato, è da pelle d'oca perché fa' tornare bambini, ai tempi di Thierry Sabine, di Cyril Neveu sulla Yamaha XT500, di Gaston Raiher sulla Porsche 911, di Edi Orioli sulla Cagiva Lucky Strike. E del compianto Fabrizio Meoni, indimenticabile campione italiano, simbolo del rally raid più affascinante della storia.
Per il resto dell'anno continuerò a sognare di planare sulla sabbia del deserto, in piedi sulle pedane, a bordo di una Honda XL600 Paris Dakar rossa bianca e blu. In attesa della prossima edizione, in attesa di realizzare, un giorno, il sogno di viverla direttamente sulle strade polverose di Argentina, Bolivia e Cile.
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Corsa e manifestazione incredibile. Condivido ogni singola parola. L'unica cosa, credo che grandi team non investano anche perchè non c'è un gran ritorno, il "prodotto" ormai non rende molto. Non credo sia solo questione della gara pericolosa (BMW ha dato una moto a Dunlop per vincere il TT e Honda investe smpre un mucchio sull'Isola di Man). Credo proprio che investire molto, per una gara geograficamente lontana dai mercati in cui potrebbe esserci ritorno non interessi molto. Nell'era in cui seguiamo in diretta e con un mille immagini tutto la dakar è ancora quasi carbonara...
RispondiEliminaE' vero Nicco, allora perché un marchi come Mini e KTM investono così massicciamente? Forse per il mercato USA?
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