sabato 9 aprile 2011

Dimmi quale casco indossi e ti dirò chi sei...


Da quando diventò obbligatorio anche nel nostro paese, il casco è entrato prepotentemente a far parte della vita di ogni motociclista italiano. Non solo, il casco rappresenta nel contempo l’essenza e l’emblema di un centauro. Prima per obbligo di legge, poi per effetto delle strategie di marketing dei produttori, il casco è parte integrante ed inscindibile dell’andare in moto: non indispensabile come una parte meccanica, che ne so un carburatore, ma di certo rilevante. Una spanna avanti rispetto ad altri accessori altrettanto importanti per la sicurezza, ma non ancora così diffusi ed imprescindibili per gli standard di qualsivoglia genere di centauro.
In questo contesto, parlare di sicurezza sarebbe certamente onorevole ma fin troppo retorico. Per questo, stamattina, immerso nel vortice nel mia follia monotematica, mentre mi rigiravo pigramente nel lettone, dopo essere stato svegliato dall’antifurto di qualche maledettissimo scooterino, pensavo alle tante sfumature, per niente scontate, che possono caratterizzare un oggetto così comune ma così personale.


Ricordate il vostro primo casco?
Il mio era un jet Bieffe bianco anni ’80 con aletta parasole in plastica e grafiche grigio nere. Me lo regalò il mio generoso papà quando, compiuti 14 anni, ereditai l’indimenticabile Garelli Eureka Flex 50 bianco di famiglia. Andammo ad acquistarlo, scegliendolo tra tanti, da Manganaro, uno piccolo rivenditore di ricambi (ora evoluto in un maxi concessionario) di Picanello, il vecchio quartiere al centro di Catania. È quello il casco che ricordo con più batticuore: con quello in testa, mi sentivo un provetto Edi Orioli alla conquista delle polverose strade etnee!
Dopo soli due anni - erano i tempi delle scuole superiori - stravolsi la grafica del casco, adattandolo alla mia Aprilia da enduro e personalizzandolo dipingendo con gli Uni Posca un grande fiore colorato (tratto dalla copertina di 3 Feet High and Rising dei De La Soul) sul lato destro e incollando il simbolo della pace, ricavato da un foglio di plastica adesiva rossa, ritagliata accuratamente con le forbici, sul lato sinistro.

Il secondo casco impresso nella mia memoria, fa parte della discussa categoria, ormai fuorilegge, delle cosiddette “scodelle”, dal punto di vista della sicurezza assolutamente inutili. Era un semplicissimo Bieffe Bi2 bordeaux, con aletta parasole nera sganciabile tramite tre automatici, cedutomi ancora nuovo da mia sorella. Leggero, ottimo per non friggersi il cervello durante le roventi estati siciliane, malgrado la tonalità scura del colore, e pratico da riporre nel bauletto della Vespa o da infilare nello zaino Invicta. Lo sfruttai fino all’estremo: il rivestimento interno si sgretolò producendo una pruriginosa polverina nera, la testa era pericolosamente a contatto diretto con la calotta esterna e il metallo degli automatici si arrugginì a causa dei tanti acquazzoni ionici affrontati in sella e dei gavettoni estivi subiti dagli amici. Oggi, cavalcando lo spirito eco friendly dei giorni nostri, il Bi2 potrebbe riciclarsi in un cestino per la frutta da fare invidia a Philippe Starck, kitsch quanto basta e perfetto per la composizione di un'originalissima natura morta contemporanea…


C’è un altro casco per me unico e speciale: una volta arrivato alla pensione l’ho addirittura esposto in soggiorno tra i miei memorabilia! È un jet Nolan N30 grigio, con visiera e aletta parasole nera, neanche troppo anziano ma profondamente vissuto e complice delle mie esplorazioni verso l’incontenibile passione per la moto. Mi ha accompagnato per anni nella vita di tutti i giorni, nel traffico opprimente della capitale, di ritorno dalle serate con gli amici, negli spostamenti da e verso il mare, nei tranquilli weekend fuoriporta, nei viaggi estivi spensierati e senza meta. Mi ha protetto dal freddo e dal vento, dal sole e dall’acqua, ha nascosto lacrime ed incorniciato sorrisi, ha ospitato teste di ogni genere, non è mai stato fermo per lunghi periodi, ha stazionato sugli scogli e sopra il letto, sulla neve e su una barca e più di una volta si è pure sacrificato a fungere da scomodo sostegno per il mio fondoschiena. Ha resistito a lungo ma è crollato di schianto: l’imbottitura interna si è afflosciata all’improvviso e lo strato di colore della calotta esterna ha iniziato a perdere pezzi come un vecchio muro scrostato.
Finalmente è lì, riposto accanto ad una cassa Bose ad ascoltare buona musica in prima fila, a guardare tutto e tutti dall’alto in basso e a ricordarmi che è sempre meglio avere qualcosa di buono per la testa…


Mi piacciono molto i caschi leggeri. Esteticamente preferisco i jet, che permettono anche di percepire più nitidamente il rombo del motore. Adoro quelli dalle forme vintage, meglio se monocromatici e senza sgancio rapido. Per viaggiare scelgo sempre un integrale. Oggi ne posseggo diversi ed è forse proprio questa scelta che mi rende meno affezionato a ciascuno di loro. Quello che prediligo tuttavia è l’X-Lite X901 rosso fuoco, un colore che inizialmente non mi convinceva e che poi ha finito per conquistarmi proprio per la sua originalità. L’unica volta che chiesi a una persona di reggermelo per un istante, passarono pochi secondi prima che precipitasse a terra proprio sopra un cumulo di piccole pietre affilate, da cui ha per sempre ereditato due bei segni profondi proprio sopra la visiera.


Negli ultimi anni ho maturato la certezza che un casco non è solo un amico e che indossarne uno, integrale e di ottima fattura, sempre e comunque, senza temere per la pettinatura, senza soffrire il caldo, senza domandarsi “e poi dove lo metto?”, può fare davvero miracoli. E presto spero proprio di riuscire a raccontarvene uno…

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